Coming out e sport, cosa dice la psicologia
Un contributo di Diego Polani
Oggi ho trovato online su Nuoto•com un articolo di estremo interesse che può farci ragionare e traghettare verso un pensiero più moderno e meno ipocrita dopo anni di crescita culturale. L’articolo, che consiglio di leggere, è “ Pride 2020: sportivi, com’è difficile il coming out ” e mi ha stimolato alcune considerazioni di carattere strettamente psicologico-sociale.
Si afferma da tempo che tutti dovrebbero sentirsi liberi di fare coming out. Molti, purtroppo, vorrebbero farlo ma evitano, per paura delle reazioni negative; nel mondo sportivo questo è ancora più vero. Nello sport per via della sua concezione storica, e anche per la mentalità della maggior parte delle persone che cercano negli sportivi un cliché da imitare, si pensa che la mascolinità egemone si riproduca e si rinforzi. Uomini e donne spesso si trovano ad essere posti a dover esprimere dei comportamenti spesso esagerati che sono iper-mascolinizzati e iper-femminilizzati per sentirsi ed essere visti come persone adeguate e conformi a quei prototipi dettati e sanciti da una norma non scritta.
L’omosessualità nello sport è quindi considerata ancora un tabù, un tabù molto pesante, presente e difficile da riuscire a gestire anche se, come abbiamo iniziato a vedere, sempre più atleti riescono a vincendo la paura e si dichiarino pubblicamente.
Purtroppo l’eteronormatività che si vive nello sport agisce ancora secondo due modalità: da un lato la si vive come una minaccia verso persone “gay” e “lesbiche” dichiarate, ma anche come quella minaccia diretta a coloro che pur se eterosessuali vengono sospettati di essere ”gay” perché hanno comportamenti effeminati, o mascolini, e quindi non aderenti agli stereotipi di “genere”. Quindi questa è una piaga che affligge una grossa percentuale di persone.
Durante i mondiali di calcio 2014, tenutisi in Brasile, l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay rivolse uno storico appello ai calciatori omosessuali nel quale esortava gli stessi a dichiarare senza timore il proprio orientamento con queste parole "Chi è omosessuale lo dichiari. È il modo migliore per aiutare gli omosessuali nel mondo ad essere accettati"
In ambito psicologico e psichiatrico ci sono stati momenti dove l’omosessualità veniva considerata alla stessa stregua di una qualsiasi malattia invalidante e mentale. Aspetto ancora oggi purtroppo assurdamente portato alle cronache da movimenti politici oltranzisti, eppure ricordo che l’Ordine degli Psicologi ha chiaramente affermato che l’omosessualità non è una malattia e non si cura; ha rigettato le famigerate terapie di conversione e riparative, considerandole dannose e lesive.
Quindi sappiamo che il cammino verso il riconoscimento e la successiva accettazione dell’omosessualità non è immune da rischi, fatiche e prese di posizione, ma riuscire a fare coming out alla fine aiuta a far sì che si crei un effetto domino che possa facilitare quello sviluppo di un’identità omosessuale che sia serena e assertiva e diventi un luogo simbolico in cui tutti gli aspetti della personalità possano convivere in maniera integrata e armoniosa.
Diego Polani
Psicologo dello sport - Psicoterapeuta
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