Michael Phelps contro il Comitato olimpico USA: "Non si preoccupa della salute mentale degli atleti". Il commento di Diego Polani
Duro attacco del campionissimo sul mancato supporto agli atleti con propositi suicidi
Michael Phelps ha rilasciato un'intervista a Sally Jenkins del Washington Post nel corso della quale ha accusato USOPC (il Comitato olimpico e paralimpico USA) di non preoccuparsi della salute mentale degli atleti.
L'intervista prende le mosse da una causa intentata William Moreau contro lo stesso USOPC , per il quale ha ricoperto la carica di vicepresidente per la medicina sportiva. A parere di Moreau, il Comitato non si sta adoperando adeguatamente per tutelare gli atleti con problemi psicologici, e in particolare istinti suicidi.
Jenkins ha contattato Phelps per chiedergli quale fosse stata la reazione dei vertici del Comitato all'epoca in cui il Kid aveva reso pubbliche le proprie difficoltà.
"Cosa ho avuto da loro? Nulla. Silenzio. Esattamente l'opposto di quella che dovrebbe essere una politica di benessere degli atleti. Avevo timore di espormi, pensavo che non fosse il caso. Ma ora tutti sanno. Come avremmo potuto sentirci a nostro agio e avere confidare in un aiuto, quando loro passavano il tempo ad andare a spasso e a chiacchierare? Io all'epoca volevo morire. Tutto ciò che potevo fare era rigettare indietro questo pensiero. Divenni dannatamente bravo a ragionare a compartimenti stagni. E questo non è salutare. Ero arrivato a un punto, nel 2014, in cui non volevo più vivere".
Gli atleti olimpici possono sembrare invincibili, nota Jenkins, ma non è cosi. Sono fragili, stressati, timorosi, come conferma lo stesso Phelps. "Mi spezza il cuore sentire le loro storie. Oggi sono impegnato a fare il possibile per contribuire a salvare vite".
Leggi l'intervista completa [ENG]
Sul delicato argomento della salute mentale degli atleti abbiamo chiesto una riflessione a Diego Polani, piscologo dello sport e psicoterapeuta, docente nazionale SIT FIN, a lungo accompagnatore delle Squadre nazionali.
In riferimento a quanto dichiarato da Michael Phelps su quanto ha dovuto combattere per uscire dalla sua depressione, e come questa sia stata di fatto ignorata dal Comitato Olimpico Statunitense, si evidenzia un problema purtroppo annoso e non solo americano.
La depressione ed il suicidio, in base a quanto evidenziato in ambito sanitario dalle statistiche, sono strettamente collegati. Infatti abbiamo circa il 10-15% dei suicidi in persone con depressione grave e ricorrente, mentre si è notato che coloro che in fase depressiva hanno avuto pensieri suicidi sono tra il 40% e il 70%.
Questi pensieri con azioni suicidarie successive possono essere molto disagevoli da interpretare.
Le persone depresse, se aiutate, iniziano a cercare di parlare e comunicare questi disagi ed è importante creare un’atmosfera calda e aperta che permetta loro di contenere la situazione; questo è ancora più importante quando si notano comportamenti devianti e ancora non c’è la consapevolezza necessaria per poter chiedere aiuto.
In ambito sportivo si pensa, con una chiusura ottusa verso la realtà, che questi problemi non esistano o non siano rivlevanti. Si parla molto di preparazione mentale alla gara, di preparazione allenante alla prestazione, ma mai di come accompagnare gli atleti nel loro fine carriera. Invece sarebbe utile sviluppare dei team di professionisti, psicologi e psichiatri, in grado di affrontare questi problemi che spesso colpiscono proprio gli atleti di altissimo livello che nel momento in cui si trovano a decidere di interrompere la loro attività sportiva escono da quella gabbia dorata che li ha sempre protetti, proprio per non avere distrazioni nella prestazione.
Si tratta di creare una sorta di outplacement che li aiuti a traghettare verso una vita futura e normale, al di fuori di ogni risalto mediatico a cui sono abituati.
I Comitati Olimpici e le Federazioni Sportive dovrebbero impegnarsi a studiare queste eventuali forme di supporto così come da tempo avviene nelle aziende che cambiano obiettivi e struttura.
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