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Guido Martinelli: "I tecnici sportivi sono lavoratori. Dalla Commissione tecnica soluzioni per tenere il sistema in equilibrio, ora dipende tutto dalla politica"

Intervista esclusiva con uno dei massimi esperti di diritto sportivo e degli enti associativi, secondo il quale è possibile conciliare un adeguato inquadramento del lavoratore sportivo con l'equilibrio gestionale

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Il tema da sempre scottante del lavoro sportivo si è ulteriormente arroventato nelle ultime settimane a seguito di una vera e propria raffica di sentenze della Corte di cassazione (segnatamente le nn. 41397/2021; 41467/2021; 41418/2021; 41419/2021; 41420/2021; 41468/2021; 41570/2021; 41729/2021; 175/2022; 177/2022; 952/2022; 953/2022; 954/2022) univoche e conformi nel ritenere che, in presenza di una attività sportiva dilettantistica svolta a titolo oneroso, con continuità, in maniera professionale, i compensi sportivi dilettantistici di cui all’articolo 67, comma 1, lett. m), TUIR non possano essere riconosciuti, ribadendo quello che in sostanza molti operatori del settore affermano e rivendicano da anni: quello sportivo, per quanto atipico, è lavoro, e come tale deve essere considerato, rifacendosi alle due sole fattispecie riconosciute dal nostro ordinamento: subordinato o autonomo.

Abbiamo chiesto un commento a queste sentenze, e più in generale alle prospettive di medio termine del settore, a quello che è unanimemente riconosciuto come il massimo esperto della materia: l'avvocato Guido Martinelli, dello Studio Martinelli-Rogolino di Bologna, reduce dai lavori della Commissione tecnica istituita dalla Sottosegretaria Valentina Vezzali per  trovare una sintesi dei contributi pervenuti a seguito della consultazione pubblica aperta il 22 giugno scorso per la revisione del Decreto legislativo in materia di lavoro sportivo, 28 febbraio 2021, n. 36, passato alle cronache come "Riforma dello sport", fortemente voluta dall'ex Ministro Vincenzo Spadafora e approvata dall'esecutivo di Giuseppe Conte nell'ultimo giorno della propria permanenza in carica.

Buonasera avvocato, grazie come sempre per la sua disponibilità. Partiamo dalla fine, da queste sentenze della Corte di cassazione. Come legge questa ondata di giurisprudenza univoca sul tema del lavoro sportivo?

In queste ultime settimane, a partire dal 22 dicembre, ci siamo trovati di fronte alla pubblicazione da parte della Corte di ben ventotto sentenze che hanno in maniera omogenea e conforme rinviato alle Corti d'appello di provenienza una serie di decisioni relative all'applicabilità alle prestazioni svolte a favore di associazioni e società sportive dilettantistiche del comma 1 dell'articolo 67 del Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), cioè i cosiddetti "compensi sportivi" privi di ritenute previdenziali e fiscali. Tutte queste sentenze hanno appunto rimandato alle Corti d'appello le sentenze che avevano accolto le tesi delle ASD e SSD ricorrenti, sul punto specifico della professionalità della prestazione. La Corte quindi, confermando un orientamento già emerso in passato, ha stabilito un principio di diritto molto importante: quando si è in presenza di un'attività professionale - e con il termine professionalità non si fa riferimento tanto alla qualifica quanto al tipo di attività svolta in via principale seppur non esclusiva: si parla quindi di persone che "vivono di sport" - i tecnici non possono essere retribuiti come sportivi dilettanti ma vanno considerati lavoratori con tutti gli annessi e connessi, a cominciare dai maggiori costi per i datori di lavoro. Quindi il principio che si stava consolidando negli ultimi anni secondo il quale era sufficiente la presenza di un tecnico sportivo, poniamo un istruttore FIN, una associazione o società sportiva dilettantistica, e un'attività da questa organizzata, ad esempio un corso di nuoto, per presupporre l'applicabilità del suddetto articolo 67 del TUIR, viene oggi completamente sconfessato e si rende necessario valutare caso per caso, situazione per situazione, in quali casi - credo, onestamente, molto pochi - tale applicabilità sussista ancora alla luce dell'insegnamento della Cassazione che, ribadisco, è molto chiaro e molto netto.

A cosa attribuisce questo cambio così repentino di orientamento della giurisprudenza?

In realtà questo era l'orientamento originario, nello spirito delle da molti dimenticate circolari ENPALS del 2006 nelle quali si distingueva tra attività occasionale, con un tetto massimo di 4.500 euro annui oltre i quali scattava la presunzione di professionalità, e l'attività appunto professionale soggetta a contribuzione. Per arginare questa interpretazione prima il Ministero e l'Ispettorato del lavoro con propria circolare n.1/2016, poi alcune sentenze di Corte d'appello sembravano aver sovvertito tale orientamento, al quale si ritorna oggi. Se nel 2004-2005 mi aveste chiesto un parere sull'applicabilità dell'art. 67 TUIR vi avrei probabilmente risposto con le stesse parole che utilizza adesso la Cassazione e alle quali sarà necessario fare riferimento per il futuro.

Notevole anche, nelle sentenze sopra citate, il riferimento all'articolo 36 della Costituzione: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi"

Proprio per questo ribadisco che la posizione assunta dalla Cassazione non è affatto atipica. Atipico era il precedente orientamento, atipico era l'atteggiamento assunto dal Ministero del lavoro, perché non vi è ombra di dubbio che a chi si dedica a tempo pieno allo sport, sia esso dilettantistico o professionistico, deve essere riconosciuta la dignità del lavoratore. Quanto poi ciò sia compatibile con la tenuta del sistema sportivo, questo è un altro ragionamento che non può però inficiare il precedente.

A questo proposito è in effetti convinzione diffusa che la sostanziale scomparsa delle collaborazioni sportive, unitamente alla pandemia di Covid e all'impennata dei costi energetici, porterà all'implosione del sistema. Che considerazioni si sente di fare, anche alla luce del lavoro svolto con la Commissione tecnica istituita dalla Sottosegretaria Valentina Vezzali?

Proprio in funzione dei lavori di quella commissione mi sento di essere ottimista. È stato consegnato alla Sottosegretaria un testo, attualmente sottoposto a verifica tecnica prima di diventare oggetto di confronto politico, che potrebbe essere approvato sotto forma di decreto anche molto rapidamente. Non è questa ovviamente la sede per entrare nei dettagli, ma posso anticipare che le conclusioni sono estremamente confortanti: nell'82 per cento dei casi presi in esame il passaggio al nuovo regime non comporterà oneri aggiuntivi per i datori di lavoro; nei rimanenti ci saranno maggiori costi nel primo quinquennio in una misura che va dal 5 al 7 per cento, valori ritenuti compatibili con la tenuta del sistema. Ovviamente il decisore politico può decidere di ignorare o stravolgere la nostra proposta, ma le soluzioni sono state trovate garantendo comunque tutela ai veri lavoratori dello sport.

Approfittiamo della sua ampia e profonda conoscenza del sistema sportivo italiano per chiederle: che sport uscirà secondo lei da questa crisi epocale?

Questa è una bella domanda. In effetti il problema è grosso. Non c'è dubbio che molti piangeranno perché in passato, anche se vogliamo proprio a causa del famigerato art. 67 TUIR, era estremamente facile  entrare nel mondo dello sport: aprire una palestra, avviare un'attività sportiva richiedeva costi molto contenuti. Ciò ha portato a una proliferazione di operatori economici, una parte dei quali probabilmente non sarà in grado di resistere ai nuovi condizionamenti: la loro uscita dal mercato è una circostanza che suscita grande tristezza ma che va inevitabilmente messa in preventivo. Non ho la sfera di cristallo ma posso rispondere con un ricordo personale: io ho iniziato la mia attività di formatore per gli operatori sportivi negli anni Ottanta. In quel periodo molti dirigenti non mi invitavano e disertavano gli eventi ai quali prendevo parte perché mi accusavano di seminare terrorismo psicologico e affermavano che seguendo le mie indicazioni nessuno avrebbe più potuto fare sport. Sono passati quarant'anni e mi pare che di sport ne abbiamo fatto, ne facciamo parecchio e non ho dubbi che ne faremo ancora. Certamente sarà meno facile avviare un'attività sportiva e sarà meno facile lavorare nell'ambito sportivo - ammesso che quello di cui abbiamo avuto esperienza sin qui possa essere definito lavoro. C'è inoltre da osservare che dopo questi due anni di pandemia lo sport come attività di gruppo, all'interno di un corso, rischia di avere meno appeal rispetto alla pratica in solitudine o comunque al di fuori di strutture organizzate, con spazi limitati e orari rigidi.

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