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La dual career di Paolo Palchetti: Il denominatore comune di tutto il mio percorso è stata la passione.

Paolo Palchetti: tecnico della società Rari Nantes Florentia, noto ai più come allenatore di Lorenzo Zazzeri, Matteo Restivo e altri atleti d'elite, ha sicuramente qualcosa di interessante da raccontare in fatto di dual career.

Dual career: un argomento assolutamente attuale. 
Ne parlano molto due dei suoi atleti: Matteo Restivo e Lorenzo Zazzeri.
Prima di poterne parlare però, l'hanno vissuta sulla loro pelle. E prima ancora hanno avuto l'esempio del loro allenatore.
Eh sì, perchè la dual career non è solo qualcosa che riguarda gli atleti, ma anche gli allenatori.
E in un'accezione assolutamente positiva.
Paolo Palchetti: tecnico della società Rari Nantes Florentia, noto ai più come allenatore di Lorenzo Zazzeri, Matteo Restivo e altri atleti d'elite, ha sicuramente qualcosa di interessante da raccontare in fatto di dual career.

Paolo Palchetti nasce come nuotatore: non ti sei avvicinato al nuoto da adulto e neppure per caso. Si potrebbe dire che è un rapporto che si è costruito nel tempo.

Ho iniziato a nuotare da bambino, in una piccola società che si chiamava Nuoto Club Firenze: il mio gruppo di preagonismo è stato il primo per quella realtà. Da lì è iniziato queso percorso caratterizato da una grandissima passione. Ho sempre adorato nuotare! Da lì poi, io e alcuni miei compagni, tra cui Paolo Falchini e Daniele Berti, siamo passati alla Rari Nantes Florentia. 
Putroppo alla mia grande passione non corrispondeva un altrettanto grande talento: la mia gara erano i 200 farfalla.

Quando è avvenuto il passaggio da dentro l’acqua a fuori dall’acqua: da atleta a allenatore?
Quando ho iniziato la facoltà di fisica per me non è stato proprio possibile coniugare scuola e sport. Mi allenavo con grande impegno ma senza ottenere altrettanto grandi risultati. Il mio obiettivo era la fisica perché mi piaceva, mi appassionava e comunque sentivo che avrebbe rappresentato il mio futuro dal punto di vista professionale. Ci ho messo tutto l’impegno possibile per portare a termine il mio percorso di studi: il corso di laurea era davvero impegnativo all’epoca. Non appena comunicai in società che avrei lasciato il nuoto agonisitco, mi chiesero di dare una mano a Borracci. Io accettai con piacere perché comunque era un modo per rimanere nell’ambiente, un ambiente che mi era familiare e mi piaceva moltissimo. È stato un percorso graduale: ho cominciato facendo l’istruttore e piano piano sono cresciuto. 
Il denominatore comune di tutto il mio percorso è stata la passione: la passione per imparare, per insegnare, per trasmettere, la passione per la tecnica.

La metodologia dell’allenamento, lo studio, sono sempre state cose che mi hanno appassionato moltissimo. Mi ritengo fortunato perché, da atleta e da studente, la metodologia di allenamento che si applicava quando nuotavo, non solo l’ho vissuta ma l’ho anche studiata e ho cognizione del perché poteva portare a dei risultati. È innegabile che alcuni che nuotavano con me e come me, i tempi li facevano. Questo voleva dire che per qualcuno quel metodo funzionava. Forse a livello internazionale non era ancora molto valido, ma a livello nazionale sì.
Sicuramente c’era molto volume: quello che solitamente accadeva era che, alla fine di questi blocchi di lavoro importanti in fatto di chilometraggio, venivano fatte delle serie che erano di qualità, quindi ci si focalizzava sulla tecnica, cosa che attualmente invece viene proposta per prima. 
La metodologia è sicuramente cambiata, la tecnica invece, secondo me, non più di tanto. In quel periodo ci sono stati dei tecnici di primo ordine. Quando è arrivato Massimo Borracci nella nostra società, abbiamo subito visto un approccio innovativo, curioso, di uno che non si accontentava di fare, ma doveva capire perché, come, quando e cosa. C’era già stata un pò di transizione, si respirava un inizio di cambiamento. Tutto questo avveniva tra gli anni ’70 e ’80. 
Il mio passaggio con il cronometro in mano forse ha un significato anche in quello che poi è stato ed è il mio atteggiamento nell’argomento studio.

E poi mi ritengo davvero fortunato perché gli atleti che ho incontrato nel mio percorso sono stati incredibili. 

Si tende sempre a parlare di fortuna, ma a volte le cose accadono a chi le fa accadere. Non è detto che gli stessi atleti seguiti da un tecnico diverso avrebbero avuto gli stessi risultati. 
La spiegazione che io mi sono dato nel tempo è racchiusa in una frase: con gli atleti devi essere un interlocutore. In me la cosa che ha fatto la differenza, e l’ho capito strada facendo, è stata che pur facendo un altro lavoro, e quindi non potevo esserci in qualsiasi momento, potevo essere un interlocutore per loro. Questo significa credibilità, condivisione, comprensione: in qualche modo si deve instaurare un rapporto bivalente che consente di fare un percorso insieme.

Il mio lavoro di fisico io non ho mai nemmeno lontanamente pensato di lasciarlo. Lavoro in un’azienda internazionale medicale, Esaote, e mi occupo delle sonde per gli ecografi: sono a capo del progetto e della ricerca per la realizzazione delle sonde per gli ecografi. Il mio pane quotidiano sono gli ultrasuoni, attraverso i quali si ricevono e trasmettono segnali per ricostruire l’immagine. Faccio questo lavoro da 37 anni e per certi aspetti è una challenge come allenare. Se il mio lavoro è la parte impegnativa, allenare è la parte che mi consente di alleggerirmi, di divertirmi, di svagarmi. Pur facendolo con l’impegno e la professionalità necessari. L’abbinamento di queste due cose col tempo si è rivelata possibile e soprattutto mi dava credibilità con atleti di un certo livello, che poi si sono rivelati d’élite.

Il fatto che io abbia smesso con il nuoto per studiare è un qualcosa che mi fa dire quando trovo un atleta che va all’università, studia, fa gli esami, e viene ad allenarsi come lo alleno io: QUESTI SONO EROI . Poi vincono, non vincono… sono comunque eroi. Perché la richiesta che c’è ora in allenamento non è assolutamente assimilabile a quella di un tempo. Una volta si entrava in acqua e in qualche modo si facevano le distanze; ora si deve essere professionisti. E quindi fare le due cose è da eroi.

Sono felice che Matteo e Lorenzo abbiano parlato di questa cosa: loro sono l’espressione massima di una squadra di ragazzi che pensano e agiscono come loro. 

Lorenzo ha sempre raccontato che per lui avere lo studio, l’arte, oltre al nuoto è stato importante perché in questo modo i suoi risultati sportivi erano una parte della sua vita ma non la sua totalità. È così anche per un allenatore?

Credo che per me sia diverso: mi sono laureato nel ’87 e facevo l’allenatore dei piccolini. Non potevo definirmi un allenatore come lo intendiamo oggi. Per me, con il passare del tempo, era vero il contrario: fare l’allenatore, e che questo mi appassionasse molto, mi permetteva di alleggerirmi da quelle che erano le responsabilità e gli impegni che un lavoro come il mio richiedeva. Poi, con il passare del tempo, arrivi a un livello tale che il lavoro di fisico e il lavoro di allenatore diventano due challenge che si abbinano nella giornata e nella vita, si impara a gestirle entrambe. 
Vedere che i miei atleti si procuravano un’alternativa mi ha sempre dato tranquillità. Oggi fortunatamente ci sono i gruppi sportivi militari che supportano gli atleti professionisti ed è sicuramente una cosa preziosa che permette ai ragazzi di concentrarsi sul loro percorso sportivo. Sapere però che i ragazzi che seguo si stanno preparando in qualche modo ad affrontare quello che sarà il dopo, in una maniera intellettualmente qualitativa, mi rende orgoglioso e mi da gioia. 
 

 

Bisogna essere realisti: la vita del nuotatore ha comunque una data di scadenza, non è possibile fare questo per la vita. Si tratta di un periodo, bellissimo, ma che ha un inizio e una fine.

Sono assolutamente d’accordo. Quando seguo i miei atleti, in qualche modo vedo l’orizzonte anche per loro, ed è importante non fare finta di nulla. Bisogna prepararsi e affrontare la vita. Noi allenatori non dobbiamo essere egoisti: come vogliamo il bene dell’atleta in acqua dobbiamo volere il bene dell’atleta anche in quei momenti.

Anche questa è la credibilità di cui parlavi prima.

Assolutamente. Credibilità poi è anche nel linguaggio natatorio, cioè sul progetto che si costruisce insieme. Piano piano mi sono accorto che l’aspetto umano diventa la base per l’aspetto tecnico, non è vero il contrario. Riuscire a instaurare questo rapporto con loro è fondamentale per la buona riuscita del progetto. Probabilmente è la ragione per cui ho continuato a fare l’allenatore senza rinunciare al mio lavoro e viceversa. Senza questa cosa secondo me l’allenamento diventa uno stillicidio per l’atleta e per l’allenatore che non porta assolutamente a niente.

Paradossalmente sono terrorizzato dall’idea della pensione e del fatto che io possa passare più ore in piscina rispetto a quello che già trascorro. Sono calibrato su un certo numero di ore e ho il mio equilibrio su quelle e questo equilibrio lo trasmetto anche ai ragazzi. Temo che, se sto troppo in piscina, venga meno l’attenzione e la cura che ci posso mettere in quello che faccio per loro. Per me l’allenamento è incredibilmente intenso dal punto di vista dell’attenzione ma deve essere così, perché se non è corroborato da tutto questo l’allenamento non serve a niente. Devi pensare alla strategia, devi guardarli negli occhi per capire se quello che ti sei prefisso di fare è realizzabile anche in funzione del loro stato d’animo, sono ragazzi con caratteristiche diverse delle quali bisogna tenere conto. 
 

I tuoi atleti dicono che, da bravo fisico, hai un approccio incredibilmente scientifico al nuoto. Confermi? Qual è il principio che per eccellenza applichi regolarmente durante i tuoi allenamenti?

Confermo. I miei allenamenti sono incentrati nella ricerca dell’efficienza propulsiva. Ognuno di loro deve essere in grado di applicare la forza più efficace possibile per lo spostamento. Questo è quello che cerco di trasmettere e insieme si cerca di arrivare allo spostamento d’acqua più valido possibile. Sono convinto che impostare le cose in questo modo coinvolge i ragazzi anche mentalmente. È uno scambio continuo di riflessioni su sensazioni in acqua che devono avere questa finalità.

Di quali strumenti ti avvali?

Riprese video, il nuoto frenato con le potenze calibrate, cioè stabilendo con quanti chili a carico il ragazzo sta avanzando, ogni atleta ha la sua curva di potenza e su quella si cerca di lavorare. Poi abbiamo dei sensori molto simili a delle palette. Tutto ciò che ci può aiutare per raccogliere più informazioni possibili per migliorare. E poi sono incentivanti per i ragazzi. 
Se l’allenamento non ha una ricaduta tecnica quotidiana, perde di valore e di efficacia.

Il tuo essere fisico ti ha aiutato nell’essere allenatore?

Tra le materie che si devono studiare per diventare allenatore c’è anche la fisica applicata all’acqua. Ogni allenatore queste cose le sa: io sono stato agevolato dal percorso accademico che ho fatto perchè queste cose le avevo già studiate. Ma non ritengo di saperne di più. 
 

Matteo Restivo:
Paolo è stato il primo a darmi l’esempio di doppia carriera e a credere che potessi fare sia nuoto che medicina. Ci ha creduto ancora prima che ci credessi io, e questa cosa è stata la miccia che ha acceso il fuoco che mi ha portato a diventare chi sono oggi.

Lorenzo Zazzeri:
Paolo è stato il primo esempio concreto di Dual Career, venendomi ad allenare la mattina alle 5.45, lavorando tutto il giorno e successivamente tornando in piscina.
Ci ha sempre spronato a non tralasciare gli studi e ricordo ancora quando, come tecnico, non gli veniva data la giusta fiducia da quelli che ormai sono ex atleti.
Aver avuto come culmine del percorso la sua presenza in palcoscenici come Olimpiadi, Mondiali ed Europei, essendo peraltro riconosciuto come uno dei migliori tecnici d’Italia, ha ripagato tutti i sacrifici fatti insieme, anche se per lui la gioia più grande siamo noi come persone, a prescindere dai risultati.

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