Nuotare perché è bello
Nuotare e gareggiare perché è bello è un’ipotesi. Un’ipotesi affascinante ma difficile da definire.
Nuotare e gareggiare perché è bello è un’ipotesi. Un’ipotesi affascinante ma difficile da definire. Chi la afferma con facilità non ci crede. Chi la vive, spesso non sa di farlo. Chi sa di farlo non lo sa dire. Cosa ci muove, infatti, è davvero un enigma. Sono troppe le ragioni coesistenti. Alcune non le conosciamo, anche se agiscono. Altre sono impresentabili e non le accettiamo. Altre sono contraddittorie e non le capiamo. Dire qualcosa, poi, è un atto della volontà e la volontà vuole uscire sempre troppo bene per dire tutta la verità. Solo l’esito del tempo ha l’ultima parola.
Motivi
Per nuotare abbiamo tutti i nostri motivi. Nuotiamo per convenienza, per dovere, per sentirci qualcuno, perché non abbiamo altro, per compagnia, per non essere diversi, per abitudine, per fare come tutti, per deferenza, per opportunità…. Ogni motivo ha una sua forza. Ogni forza agisce per un certo tempo, finché soddisfa la meta. Poi si esaurisce, più o meno rapidamente. Solo convenienza e bellezza resistono. Spesso in contraddizione.
Convenienza
Lo sport ufficiale nasce per convenienza. I primi che lo hanno fatto, hanno gareggiato per i premi. Vincere, era vincere il premio. Le doti agivano per qualcosa in cambio. Qualcosa di tangibile. Da mangiare o con cui mangiare. Inizialmente la posta si contrattava tra gli sfidanti. Poi si ebbe bisogno di garanzie. Le prime organizzazioni nacquero per assicurasse i guadagni. Senza guadagno non c’era gara. Più soldi c’erano, più bella era la gara. Semplice. Come il mercato.
Bellezza
Lo sport naturale, il giuoco di piazza, l’impresa, la sagra di paese nascevano invece per il godimento di chi le faceva. Nell’ufficialità l’ideale arrivò dopo. Ma fu subito contraddittorio. Gareggiare perché era bello farlo, era ciò che volevano gli “Amateur”. Dicevano di farlo per il piacere e per la sua bellezza e che il loro premio era averlo fatto. Vincere era affermazione sul proprio destino. La grandezza era osare. Pochi, però, erano veri idealisti. Molti erano opportunisti.
Imposizione
Quando l’idealismo prese il potere cercò di imporsi coi regolamenti. É quello che successe quando l’olimpismo prese campo. L’imposizione però fa male all’ideale. Così il dilettantismo divenne moralismo becero e cominciò a punire dei poveri cristi, che mancavano in maniera insignificante alle sue leggi (il povero Airoldi, l’indiano Thorpe, Dawn Fraser…).
Ipocrisia
Nella dittatura dell’ideale vince l’ipocrisia. Non si voleva l’allenamento, ma si idolatrava chi vinceva. Si inneggiava al dilettante, ma si pagava il professionista. Si voleva la purezza e si accettava l’illecito. Già dall’inizio non fu facile. Uno dei primi problemi dei dilettanti fu che quando vincevano rinunciavano facilmente al loro status per incassare il premio (non tutti). Oppure lasciavano la vincita ad un parente. La soluzione fu inasprire le regole. Così cominciò la richiesta di premi migliori come modo di ripagare sforzi sempre più grandi. Aumentando i premi e i benefit si avviò la stagione della falsità: “professionismo di stato”, “atleti militari”, “mancati guadagni”, vantaggi sottintesi. Quindi è saltata anche la maschera. Oggi l’idealismo nello sport di massa è solo formale. Una specie di etichetta promozionale o al massimo un attestato che non faccia male a nessuno di “buon comportamento”.
Bello è vero
Ma farlo perché è bello è ancora la radice dello sport che regge. Bello significa che resiste al tempo, che sta in piedi, che continua a dare godimento impagabile a chi lo fa con senno (insieme a tante tribolazioni). Il bello sta nell’attesa di un evento, nello sforzo produttivo, nella prova superata, nella ricerca di un obiettivo, nella tecnica che la sostiene, nella relazione che l’agisce... Chi s’appassiona è un uomo fortunato. Più capace di gioire, meno soggetto ai cambiamenti di fortuna, più pronto a riconoscere il contributo degli altri alla propria felicità.
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