L'importanza della gestione del gruppo
L’attività sportiva che viene praticata individualmente, come nel caso del nuoto, richiede in ogni caso una condivisione dello sforzo all’interno del gruppo che deve essere creato in funzione di obiettivi comuni
In questi giorni stiamo guardando una azionale di nuoto che pur essendo ringiovanita con atleti anche alle prime armi, sta conquistando tantissime medaglie.
Sicuramente il lavoro dei tecnici della nazionale ed di quelli societari è stato fondamentale ed impareggiabile, ma credo che si debba considerare un altro aspetto non secondario che riguarda la conduzione manageriale del gruppo sia per quanto riguarda lo staff sia per quanto riguarda gli atleti.
Per spiegare l’importanza di questo tema vorrei rifarmi alle ultime teorie della psicologia sociale che ritengo debba entrare a pieno titolo nel mondo sportivo.
Nella bibliografia attuale si evidenzia che l’attività sportiva che viene praticata individualmente, come nel caso del nuoto, richiede in ogni caso una condivisione dello sforzo all’interno del gruppo che deve essere creato in funzione di obiettivi comuni. Per questo si forma una cultura fatta di codici linguistici e comportamentali che permettono all’interno del medesimo gruppo di comunicare e interagire attraverso sistemi cognitivi, linguaggi, logiche basate, così come afferma Wenger (2000), sulle comunità di pratica. Tutto ciò ala fine aiuta a sviluppare valori comuni, dalla conoscenza alla salvaguardia del loro ambiente, in un tutt’uno con la motivazione alla pratica sportiva ed alla performance.
Un gruppo coeso resiste molto meglio agli effetti negativi o di stress e ha un’influenza decisamente positiva sui singoli soggetti in termini di autostima e capacità di affrontare situazioni impreviste o difficili.
Possiamo definire un buon clima di squadra come un comportamento prosociale , ossia un atto volto ad aiutare o avvantaggiare un altro individuo (Eisenberg & Fabes, 1998): ad esempio, sostenere un proprio compagno di squadra, mentre si possono considerare comportamenti antisociali quelli volti a danneggiare o svantaggiare un altro individuo (Sage et al, 2006). Al- Yaaribi et al. (2016) nel suo studio ha valutato alcuni aspetti che potevano evidenziare tra gli atleti comportamenti prosociali o antisociali: il primo caso è stato associato a divertimento e impegno mentre il secondo conduceva facilmente a rabbia e a prestazioni percepite come inferiori.
Kavussanu e Stanger (2017) hanno sottolineato come il comportamento prosociale aiuti le variabili motivazionali.
Secondo Deci e Ryan (1985), tutto ciò è anche favorito da un clima positivo dello staff che spinge gli atleti ad apprezzare la loro attività agonistica perché lo stile di coaching dell’allenatore è correlato positivamente alla messa in atto di azioni prosociali.
Un altro studio di Benson et al. (2017) ha definito come le norme che vengono costruite e definite all’interno del team agonistico e la forza con cui ogni appartenente al team si identifica con i propri compagni possa influenzare il comportamento prosociale.
Un altro aspetto importante che emerge dai vari studi effettuati in questi anni è la competenza per la costruzione del carattere, variabile che si costruisce in base al modello di efficacia dei tecnici (Feltz, Chase, Moritz & Sullivan, 1999). Un allenatore con le giuste competenze riesce sicuramente a favorire lo sviluppo degli atleti ed i loro atteggiamenti in maniera sicuramente positiva. Uno staff coeso è molto efficace nella costruzione del carattere degli atleti che alla fine manifestano atteggiamenti più positivi (Feltz et al. 1999).
L’allenatore svolge, quindi, un ruolo fondamentale per il mondo sportivo: lo stile di conduzione degli atleti è uno degli aspetti fondamentali per il benessere e le relazioni all’interno della squadra.
Bibliografia
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- Zuckerman, S. L., Tang, A. R., Richard, K. E., Grisham, C. J., Kuhn, A. W., Bonfield, C. M., & Yengo-Kahn, A. M. (2021). The behavioral, psychological, and social impacts of team sports: a systematic review and meta-analysis. The Physician and sportsmedicine , 49 (3), 246-261.
Ph. © A.Staccioli/Deepbluemedia
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