"Ha perso" (seconda parte)
L'accettazione della sconfitta
La prossima volta andrà meglio, forse era un po’ emozionato. Mettiamoci pure che quello in corsia quattro sembrava suo zio, gli mancavano solo i baffi. Dopotutto non è neanche andato così male eh, tanto il risultato non conta, l’importante è divertirsi e possibilmente trovare in fretta il maggior numero di giustificazioni a quella che stiamo vivendo come una disfatta.
“L’importante non è vincere, è partecipare” lo disse Pierre De Coubertin, uno che evidentemente partecipava molto.
Accampare scuse è la prima istintiva reazione. Dirompe subito, i ragazzi non sono nemmeno usciti dall’acqua. Poi capiamo il (nostro) bluff e iniziamo a chiederci cosa ci sia di sbagliato in questo rodersi e persino se farsi coinvolgere troppo dalle emozioni sia stato un errore. Eppure abbiamo tifato per trent’anni il Catanzaro, come può essere sbagliato fare lo stesso per i nostri figli? Magari abbiamo esagerato con la distribuzione delle magliette, dubbio lecito, ma va anche ammesso che crescere un atleta sia più impegnativo del comune anche sul piano emotivo. Ci dovrebbero chiamare eroi, altroché.
Per il genitore dell’atleta è dura perché oltre alle pressioni psicologiche, soffre anche quelle culturali. Una società col culto del vincente ha anche l’orrore del perdente e la pressione sanguigna del genitore sale a livelli “cenone della vigilia”.
Nel dopogara sulle tribune amici e parenti ci accolgono con frasi di circostanza; se invece il bambino avesse stracciato tutti saremmo stati travolti da reazioni entusiastiche e, in quanto genitori del prodigio, avremmo potuto evitare di farci tante domande e goderci la festa spensierati come reginette di bellezza. Non sarà così importante, ma vincere nel nostro mondo rende tutto infinitamente più semplice.
Infatti, inutile girarci intorno, erano tutti lì ad attendere la manifestazione del dono che non è arrivata. Già, “il dono”, il talento.
Definiamo così ogni capacità apparentemente sopra media che non abbiamo accresciuto con le nostre vive mani, ancora meglio se non è ereditata, se non ce l’aveva nemmeno quel nostro zio americano. Il talento evidente nei bambini ha fascino su di noi perché ci pare un’allettante scorciatoia in grado di chiarire da subito il destino di nostro figlio, scongiurando una marea di preoccupazioni sul suo futuro. Lo cerchiamo spasmodicamente in tutti i contesti sin dal suo primo vagito (pensate stia esagerando? “Uh come piange forte! Farà il cantante lirico!”) e il nuoto non è esente da queste dinamiche, anzi, ha l’aggravante di essere rapido. Molto rapido.
Talmente rapido che venti secondi dopo il via ci sentiamo di colpo anziani e forse per questo non ascoltiamo con facilità discorsi sul dare tempo al fisico di crescere, tempo per allenare le capacità e ancora tempo per apprendere la tecnica.
Sappiamo che sono tutti concetti giusti, ma rispettate il nostro mini-lutto e parlatecene fra una settimana, quando ci sentiremo di nuovo arrembanti ed eccitati per l’avvicinarsi di un nuovo turno di gara. Ora siamo impegnati a provare ad accettare che rodersi per la sconfitta è una componente istintiva ma utile solo se gareggiamo noi, e prima saremo pronti a comprenderla decentemente, prima sapremo voltare pagina, alzarci, guardare fiduciosi al futuro e andare a prendere nostro figlio, visto che mentre siamo qui a psicanalizzarci, lui ci sta aspettando da mezz’ora per la doccia.
[Continua]
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