"Ha perso" (terza parte)
Si conclude l'autoanalisi post sconfitta
“Non dargli consigli tecnici, non dargli consigli tecnici, non dargli consigli tecnici, non dargli consigli tecnici…”. Ripetendo questo mantra scendi le scale verso gli spogliatoi e sospiri, inizi a sentirti dispiaciuto più per lui che per te e ammettiamolo, era ora. Speri di non trovarlo abbattuto, che da bravo bambino abbia superato la sconfitta prendendola per quello che è: un momento di crescita per i suoi genitori.
Quando mio figlio perde sono momenti difficili. Però lui sa sempre come consolarmi.
Se nel pre-gara siamo stati bravi, dopo la sconfitta non dovremmo incontrare troppi problemi col ragazzo. Negli spogliatoi lo troveremo sereno e probabilmente divertito comunque dall’evento, un’esperienza nuova ed eccitante. Questo se fin qui abbiamo saputo muoverci bene, senza creare pressioni, aspettative e ambizioni irrealistiche, dimostrando anche di conoscere le sfaccettature più delicate del carattere di nostro figlio. Quindi è più probabile trovarlo sull’orlo del pianto.
Va considerato che ogni bambino è diverso, ma che la sensazione di sconfitta è uguale per tutti: varia solo l’importanza che ognuno dà alla gara e questa è una componente del tutto soggettiva. Una partita a rubamazzo è sempre una partita a rubamazzo, qualsiasi sia il contesto in cui la si giochi, ma la nostra tensione cambia se ad esempio abbiamo la malaugurata idea di scommetterci l’auto. Di certo non renderà quel gioco meno noioso, ma ci tramuterà in qualcuno con l’adrenalina alle stelle che stavolta non vuole di certo perdere.
Se nostro figlio soffre la sconfitta dandogli un significato ben superiore di quanto rappresentasse l’opportunità della medaglia, è perché in sé aveva “scommesso” qualcosa in più. Se siamo fortunati non dovrebbe trattarsi della nostra auto, ma comunque riguarda probabilmente la sfera del suo orgoglio, magari il volersi dimostrare vincitore ai nostri occhi e ai suoi, convinto che una vittoria gli regali maggiori attenzioni e persino affetto.
Che assurdità, chi può essere così imbecille da inculcargli in testa una cosa del genere? Naturalmente sono stato io.
Luce dei suoi occhi, io che lo porto ovunque con entusiasmo, che sogno con lui risultati ambiziosi, che gli chiedo di raccontarmi ogni dettaglio dell’allenamento, che lo chiamo quando danno le gare di nuoto in TV, che compro le foto a ogni sua competizione, che quando vince lo porto a prendere un gelato, che al compleanno gli regalo la cuffia della nazionale e gli occhialini di Paltrinieri, che misuro ogni tre giorni se è cresciuto, visto che i nuotatori forti, si sa, sono belli alti, che prima delle gare gli preparo il suo piatto preferito e coltivo ogni giorno un’intesa crescente con lui, sperando con tutto me stesso che si realizzi il suo sogno che è avere una mamma e un papà che gli dimostrino così tanto affetto sempre.
Un attimo: deve esserci un fraintendimento. E i trionfi? Le Olimpiadi? Secondari. La sua delusione non può appartenere al lavoro tecnico, è piccolo per questo. La sua crescita come sportivo, saper perdere, capire cosa significa competere con sé stessi, allenarsi per migliorare e il miglioramento come vittoria personale, sono concetti che in nostro figlio crescono col tempo grazie all’istruttore e al nostro comportamento nelle piccole occasioni quotidiane. L’affetto e la consolazione da parte nostra invece, devono esserci sempre, e capirlo oggi è stata una grande, grandissima vittoria. Quasi quasi, per festeggiare, ci andiamo a prendere un gelato.
Ph. © Ben Hershey @Unsplash
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