Lavoro sportivo: c'è luce in fondo al tunnel
È ormai noto che l’emergenza sanitaria in corso avrà pesantissime ripercussioni in tutto il comparto dello sport. Quelle che da tempo si definiscono come aziende sportive, non sappiamo che fine faranno. E ci riferiamo sia alle imprese sportive che gestiscono impianti, ma anche alle centinaia di migliaia di piccole associazioni che vivono delle sole quote di frequenza dei loro associati.
Spenti i motori, saranno in grado di riaccenderli? Dipende.
Molto dipenderà da quanto tempo durerà l’emergenza in corso. Quindici giorni, un mese, due mesi, forse di più. Ad oggi non è dato di saperlo e neppure ipotizzarlo. La sola cosa certa è che la cassa (intesa come cash flow di moneta in entrata) si è fermata e, quando si ferma la cassa, per imprenditori come quelli dello sport abituati a fare dei flussi finanziari anticipati la loro linfa vitale sono davvero dolori. Pagamenti quindi tutti rimandati: dai mutui bancari, ai debiti verso i fornitori, alle retribuzioni dei dipendenti fino ai compensi ai collaboratori sportivi.
Ma se per i lavoratori dipendenti almeno nel breve termine il credito a loro spettante potrà essere onorato, magari con il ricorso a forme di sostegno quali la cassa integrazione, i lavoratori più penalizzati saranno i collaboratori sportivi, per i quali la natura dell’incarico non prevede pagamenti in mancanza di prestazione lavorativa. Sappiamo bene che questa categoria di operatori sportivi (allenatori, istruttori, dirigenti sportivi, ma anche la maggior parte degli atleti) in termini lavoristici appartiene all’universo dei lavoratori ai quali viene corrisposto il compenso sportivo ex art. 67 TUIR. Ovvero regime forfettario di tassazione, ma nessuna copertura previdenziale, infortunistica, ecc. In altre parole se non si svolge la propria attività lavorativa non si percepisce alcuna remunerazione. Ed allora che ne sarà di tutti questi operatori che non lavoreranno e che quindi non potranno percepire alcun compenso?
È di ieri una intervista al ministro Vincenzo Spadafora , il quale afferma che sono allo studio forme di sostegno al reddito modello CIG (cassa integrazione guadagni) per i collaboratori sportivi. Se da un lato non possiamo che applaudire all’idea del ministro, dall’altro resta difficile pensare dove si possano trovare le risorse per questa pregevole iniziativa quando a monte non c’è mai stato alcun versamento previdenziale da parte di coloro che questo beneficio lo devono ricevere.
Ed allora non ci resta che ipotizzare un nuovo modello operativo per ciò che sarà dopo la tempesta perfetta che stiamo attraversando. Ma dove intervenire e in che modo?
Nella gestione degli impianti, ristabilire prima di tutto ristabilire un equo rapporto di scambio tra soggetto pubblico e soggetto privato. L’attività gestionale e l’attività di formazione devono poter contare sull’appoggio delle istituzioni pubbliche. E se sull’attività di formazione qualcosa si è fatto, sull’attività gestionale siamo all’anno zero, per non dire meno dieci. È impensabile immaginare che la gestione di un impianto sportivo sia un’attività che consente margini di profitto – provare per credere. E se quel margine di profitto mai ci fosse stato è sempre andato a vantaggio delle attività sportive. Quindi, come detto, o ci mettiamo in testa che il pubblico deve fare la sua parte anche nelle attività gestionali, oppure non ha senso riaprire gli impianti.
Secondo argomento: lavoro sportivo. È da anni che si cerca una soluzione all’art. 67 del TUIR, con il solo risultato di alzare l’asticella della defiscalizzazione, che per certi aspetti è stata un gran successo. Purtroppo gli eventi di questi giorni hanno testimoniato che non basta. Urge trovare un meccanismo fiscale/previdenziale che permetta a coloro che della loro attività ne fanno la fonte unica ed esclusiva di sostegno di avere le necessarie coperture. Nei decreti delegati attualmente allo studio (sulla cui stesura sempre il ministro ha confermato si sta proseguendo), pare che sia prevista la figura dello sportivo (nel senso ampio del termine) semi-professionista , il cui reddito, pur rimanendo nella categoria dei redditi diversi, prevedrà una propria specifica copertura previdenziale.
È naturale che ciò avrà come conseguenza un incremento dei costi aziendali. E siccome per far quadrare i bilanci ad un aumento dei costi deve potersi contrapporre un incremento dei ricavi, la leva da attivare sarà quella del prezzo del servizio, penalizzando quella fascia di soggetti (sportivi agonisti e attività didattiche) che fino ad oggi sono stati gli effettivi beneficiari del low cost sportivo. Per come fare ad evitare questo meccanismo dobbiamo ritornare all’inizio, ovvero mano pubblica a sostegno. In che maniera? Al di là degli sgravi fiscali già esistenti e dei nuovi che ne potranno arrivare si potrebbe mettere le mani sugli impianti facendosi carico - gli enti pubblici, di un efficientamento energetico e funzionale. Ciò permetterebbe una riduzione dei costi di gestione con la quale andare a coprire i maggiori oneri lavorativi. In altre parole, minori costi energetici per coprire maggiore oneri lavorativi.
Per fare questo saranno necessari importanti investimenti, ed investimenti significa disponibilità monetarie. La loro parte la dovrebbero fare anche gli istituti bancari aprendo i cordoni della borsa, magari concedendo prestiti e mutui a tassi agevolati (con il costo del denaro prossimo allo zero, si potrebbe certamente fare), ma soprattutto senza richiedere garanzie personali. Ed anche questo si potrebbe fare creando un apposito Fondo di garanzia dedicato agli interventi per lo sport (che per la verità c’è già, vedi legge 289/02). Insomma ci sarà molto da fare per rimettere in moto la macchina. Bisognerà che tutti gli attori in campo siano disponibili a dare il loro contributo. Sono certo che accadrà così!
Ph. © A.Masini/Deepbluemedia
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