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Ci arrendiamo

Non passa giorno senza che in Italia non chiuda una piscina pubblica: una situazione critica, che ha cause lontane nel tempo

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In questi mesi abbiamo cercato di darvi conto della situazione impiantistica segnalando aperture e chiusure di piscine pubbliche in giro per l'Italia. Purtroppo le notizie erano quasi sempre di chiusure, tanto che avevamo creato una rubrica ad hoc, Bollettino di guerra . Ma oltre a essere prevalentemente negative le notizie sono francamente troppe, ci vorrebbe un sito dedicato.

L'allarme però rimane: non c'è praticamente giorno in cui una piscina non interrompa le attività, quasi sempre per cause strutturali. La maggior parte degli impianti natatori pubblici in Italia è stata costruita tra gli anni Settanta e Novanta. Considerati materiali e tecniche costruttive dell'epoca, significa che c'è un'intera generazione di piscine vicina al termine del proprio ciclo di vita: declino accelerato da manutenzioni assenti o approssimative, rispetto alle quali gli enti proprietari hanno responsabilità gravi e crescenti.

Chiariamoci subito: questa non è un'arringa in difesa della categoria dei gestori, anzi. Come in tutte le attività umane c'è una percentuale di lestofanti che hanno trascurato in maniera indecente i propri obblighi manutentivi e di conduzione degli impianti e che meritano di essere chiamati a risponderne. Ma ciò è potuto accadere con la connivenza o perlomeno la negligenza delle amministrazioni concedenti, e nell'ambito di un progressivo spostamento degli oneri che oggi rende la gestione di una piscina pubblica un'attività sempre più incerta e meno sostenibile, a meno di non poter contare su economie di scala che richiedono di controllare numerosi impianti.

Nel giro di poco più di un decennio gli enti locali si sono liberati prima dei costi di manutenzione ordinaria, poi di quella straordinaria, poi della ristrutturazione e in alcuni casi persino della costruzione degli impianti natatori. Il tutto però continuando ad esigere prezzi al pubblico calmierati (corsi di nuoto il cui costo industriale sarebbe di un centinaio di euro al mese venduti a quaranta-cinquanta, magari con la clientela che si lamenta perché troppo cari) e affidandosi a referenti, le ASD/SSD, culturalmente impreparati a sostenere iniziative di questo tipo: dirigenti che arrivano dal bordo vasca e si trovano a gestire operazioni nell'ordine dei milioni di euro, cosa potrebbe andare storto?

Tutto. E infatti assistiamo a un'inesorabile moria delle piccole e medie società che hanno fatto la storia del nuoto italiano, progressivamente sostituite da realtà esterne fortemente strutturate e capitalizzate, che operano con logiche industriali e si avviano a creare oligopoli gestionali. Il tutto con grande soddisfazione delle amministrazioni proprietarie spesso ammaliate da progetti mastodontici e fantascientifici studi di fattibilità, salvo poi ritrovarsi nel medio periodo con impianti inagibili e spopolati o cantieri abbandonati.

Problemi che non riguardano solo gli appassionati di diritto amministrativo, ma che nel giro di qualche stagione inizieranno a riverberarsi sul movimento di alto livello. Quello degli ultimi vent'anni di successi azzurri non è un miracolo, ma il frutto del lavoro di un tessuto associazionistico sportivo di base sempre più sfilacciato e sofferente, il cui declino renderà progressivamente più difficile il lavoro dei club d'élite e dei centri federali che hanno sin qui saputo valorizzare magnificamente le risorse della periferia. Forse è il caso di iniziare a pensarci.

Ph. © Daria Shvetsova @Pexels

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